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Tra dealcolati e codice della strada, cosa sta accadendo nel mondo del vino?

Lo abbiamo chiesto a Luca Cuzziol, a capo di una delle più importanti aziende di distribuzione di bevande in Italia, intercettato a Roma per la presentazione del catalogo 2025 ed ecco come ci ha risposto.

Il ruolo del distributore è sempre più centrale nel mondo della ristorazione. Non solo grandi insegne, ma anche trattorie attente, enoteche e wine-bar. In altre parole, scegliere il distributore giusto può fare la differenza in fatto di qualità, affidabilità e, ammettiamolo, può esser d’aiuto anche nel seguire i trend del momento. 

“In un mercato sempre più complesso e variegato, dove è strategico essere in anticipo nella lettura delle proposte che arrivano da nuove aree o da nuovi piccoli o medi produttori, il distributore assume una figura centrale per il mondo dell’ho.re.ca. perché ha in sé due componenti fondamentali: la logistica e l’assortimento. Nella maggior parte dei casi, i distributori italiani sono legati da una sorta di fil rouge nel modo di operare, benché taluni abbiano preferito specializzarsi o, semplicemente, possiedono peculiarità che li distinguono. Insomma, c’è chi è attento agli spiriti, chi alla gastronomia, chi ai vini “alternativi”, ma attenzione: questo li rende tra loro complementari e non competitor.”

Dunque, in un ipotetico mondo perfetto, i distributori farebbero bene a fare squadra?

Sicuramente. A beneficiarne sarebbe l’intera filiera del vino. Nel nostro paese il cliente ricerca sinergie e collaborazioni da parte di uno o più distributori ai quali affidarsi per gestire quasi in toto la propria carta dei vini o per la scelta delle proposte al bicchiere. Doversi interfacciare con pochi, o addirittura con un solo fornitore, risolve parecchie problemi a chi è già oberato di suo”.

Facciamo un bilancio delle recenti festività?

“Le festività dello scorso 2024 sono state in linea con il trend pre-covid e ormai da qualche anno il lavoro di preparazione al “Natale” avviene sempre più durante l’anno senza spinte eccessive per alcuni vini o categorie, spumanti italiani e non in primis.”

E quindi quanto e cosa hanno bevuto gli italiani?

Le bolle la fanno da padrone negli ultimi anni, perché versatili e non legate ad un momento specifico o ad una categoria di offerta gastronomica determinata. A seguire, i vini bianchi perché anch’essi più adattabili e infine i rossi che negli ultimi anni hanno un po’ lasciato spazio alle prime due macro categorie.

Il che va a braccetto con le nuove tendenze della cucina sempre più leggera e meno complessa. Ad ogni modo, il vino, ultimamente, sembra attirare tutte le polemiche del mondo: dalle etichette che dovrebbero indicarne i rischi per la salute, alle restrizioni in fatto di codice della strada, fino alla querelle su quanto sia poco elegante richiedere la wine-bag ad un ristoratore. Probabilmente le ragioni di tanta ostilità sono sotto la superficie che noi vediamo. Lei che idea si è fatto?

L’Italia, si sa, è il paese in cui si tende ad avere uno spirito critico molto marcato soprattutto quando le cose vanno nel verso giusto e il vino non fa eccezioni. La combinazione è micidiale: i giovani sempre meno attratti dal vino, le etichette con le indicazioni salutistiche, le proposte da parte di qualche paese della UE di stampare immagini atte ad allontanare le persone dal vino, lo scivolone della politica italiana sulla questione del nuovo codice stradale, insomma, se mettiamo tutto insieme può diventare la tempesta perfetta per un comparto che in Italia ha un peso specifico forte ma che soprattutto impegna molti operatori.

Ci stiamo autosabotando?

Il vino può e deve essere un grande volano per il Made in Italy, ma non solo a parole però, e soprattutto va coordinato con l’enoturismo e con la promozione del nostro paese. Ricordiamoci che l’Italia è davvero il “bel paese” dove vivere emozioni e il vino è spesso un grande ambasciatore di questo processo.

Come ogni anno, giornalisti ed operatori attendono con ansia la presentazione della scuderia Cuzziol: quali sono le belle e buone novità di quest’anno?

Ogni anno cerchiamo di completare la nostra offerta. Per quanto riguarda l’Italia abbiamo inserito due cantine: Ada Nada per la denominazione Barbaresco, nella zona di Rombone, che produce dei vini complessi ed eleganti. Per le Marche invece è entrata Campanelli, una giovane realtà molto promettente della zona dei Castelli di Jesi. Per la parte estera, accendo i riflettori su Hundred Hills: si tratta di sparkling inglesi che guardano alla Champagne, mentre per l’Austria è entrata Wabi Sabi, che offre vini audaci e contemporanei. Abbiamo inserito Lucien Collard, un nuovo Champagne della zona di Bouzy, Alvina Pernot, astro nascente di Puligny-Montrachet e infine abbiamo abbracciato la nuova impresa di Nicolas Rossignol, che rappresentiamo già per la sua produzione di Borgogna, impegnato ultimamente in una nuova avventura nel Beaujolais. Ci piacciono quelli bravi ed originali.

Insomma, i veri appassionati di vino avranno di che divertirsi. Non solo Italia, comunque. Quale paese state seguendo con particolare attenzione e perché?

“La realtà che probabilmente può performare in maniera significativa è quella americana, come ambasciatrice del Nuovo Mondo nel panorama enologico. Dalla Napa Valley all’Oregon, ci sono proposte davvero interessanti sulla fascia premium e lusso.”

Se Luca Cuzziol fosse interpellato per redigere la carta dei vini perfetta, quali sarebbero i
consigli, anche per quanto riguarda la sempre più urgente proposta al calice?

È davvero difficile per chi fa il nostro lavoro scegliere uno o più vini all’interno della propria proposta gastronomica privilegiando o dimenticandone qualcuno. Quello che posso confermare sono i trend del momento dove la ricerca da parte sia del cliente che del consumatore finale verte su vini non troppo strutturati, con una gradazione alcolica corretta e mai eccessiva, verticali ma soprattutto perfetti ambasciatori del loro “terroir”, cioè capaci di portare attraverso il bicchiere un messaggio che va oltre il vino stesso.

Meno blasone, più anima. E stiamo pensando ai sommelier, per esempio.

Bisogna conoscere i vini proposti, assaggiarli più volte, discuterne su. Lascerei stare la “comfort zone”, la spinta commerciale di un’etichetta autorevole che, alla fine, è solo un’opzione per sistemare velocemente “la questione del vino”.

Un invito alla curiosità e all’azzardo, il suo. Per non lasciare campi vuoti, due parole sui vini de-alcolati?

Il termine vino de-alcolato è un ossimoro visto che il vino si ottiene per fermentazione alcoolica. Sarebbe forse più opportuno parlare di succhi di uva. Certo, bisogna tenere in giusta considerazione quello che il mercato e le nuove e prossime tendenze possono richiedere. Io sarei più propenso a cercare soluzioni – compatibili con la vinificazione tradizionale – che possano portare ad avere vini con gradazioni più basse, facendo cultura tra i giovani che, ricordiamolo, sono il presente ed il futuro prossimo per far sì che il vino torni ad essere cool. Inoltre, sarebbe utile definire una linea chiara sulla questione salutistica.

Deve esserci un corto circuito da qualche parte, sicuramente lo ha visto prima di noi.

Prima di tutto, bisogna lavorare già all’interno della filiera produttiva affinché non ci sia un eccesso di produzione e ci vuole più controllo da parte degli organi preposti. Subito dopo, se attiviamo nuovi e responsabili consumatori e li gestiamo in modo corretto, ecco che il mercato sarà naturalmente sostenuto, senza aver bisogno di cercare “alternative” per compensare il calo – o il paventato tale – della domanda.

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