Social innovation, Sharing economy e solidarietà: i nuovi ingredienti del mangiare assieme
di Nadia Deisori (@NadiaLaZia)
Verrò, ma deve esser una cena seria. Odio chi prende i pasti alla leggera”, diceva Oscar Wilde. E come dargli torto? Il cibo non è mai stato solo appagamento di bisogni di sopravvivenza ed oggi è anche uno strumento di social innovation potente, in grado di far incontrare persone di estrazione diversa, culture e tradizioni enogastronomiche lontane.
Gli appuntamenti legati al mangiare della nostra quotidianità si sono moltiplicati in una sorta di “nomadismo alimentare”, secondo la definizione del sociologo Corbeau, una pratica che ha portato sempre più a consumare i pasti anche al di fuori della dimensione privata e famigliare: “aperitiviamo”, organizziamo cene in piedi, sociali, di beneficienza o al buio, merende all’aperto e pic nic, brunch e pranzi di lavoro.
“EAT AND TWEET”
Una nuova ed esplosiva dimensione pubblica ci ha travolto. Condividere il pasto è un must, ma non solo con i propri commensali. Non si mangia solo con forchetta e coltello, ma anche con lo smartphone: “eat & tweet”, dicono gli inglesi, e i social media fanno ormai parte della digestione del nostro pasto. Il food è la categoria più popolare su Pinterest, la cena è il pasto più postato della giornata su Instagram e hashtag come #foodporn o #yummy raccolgono milioni di foto scattate in tutto il mondo. Food Blogger e Chef di professione condividono le loro ricette online, alimentando community digitali legate dalla passione per il cibo.
Se nei secoli la commensalità è sempre stata associata ad “un rito di aggregazione materiale come un sacramento di comunione”, come scriveva l’antropologo francese Arnold van Gennep, oggi possiamo dire che il cibo non è mai stato più social di così. Mangiare è importante, ma ancora di più è condividerlo, fino al punto che il ristorante inteso in senso moderno, come luogo dedicato alla condivisione del pasto con un gruppo sociale scelto (la cui nascita si fa risalire al 1765) sta subendo una evoluzione. In quell’epoca il cuoco Boulanger serviva a Parigi zuppe e, per attirare la clientela, dipinse sulla facciata del suo locale la massima evangelica di Matteo: “Venite a me, tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò”. Proprio dal termine “ristorare” deriverebbe la parola “ristorante”.
POP UP RESTAURANTS
Il fenomeno dell’Home Restaurant può senza dubbio essere considerato parte dell’evoluzione del “ristorare”, che ha messo assieme sharing econonomy, social innovation e food. È nei primi anni 2000, e proprio grazie ad internet, che esplodono nella cultura anglosassone con il nome di “Pop Up Dinners” alcuni eventi che offrono agli ospiti qualcosa di diverso dal solito ristorante: una location inaspettata, come appunto può essere la propria casa, l’interazione personale con lo chef, un menu unico o un tema.
Chi partecipa ad una cena di questo tipo non desidera solo un pasto gustoso, ma una nuova ed eccitante esperienza culinaria e sociale, spesso con persone totalmente estranee. Oggi le piattaforme di Social Eating sono popolarissime e numerose: Gnammo, ViziEat, PeopleCooks, EatAround, ecc. Tutte condividono l’obiettivo di diffondere la socialità a tavola, mettendo in comunicazione chi cucina e offre la propria casa come location, con chi vuole essere ospite.
CIBO E INCLUSIONE SOCIALE
La socialità e il food si fondono spesso in fenomeni di integrazione e gestione dei gruppi sociali, come nel refettorio scolastico o monacale o in merito ad iniziative di solidarietà, come nelle mense per i meno abbienti, o di conservazione delle tradizioni locali, come nelle sagre. Il legame tra cibo e uomo è dunque un filo che non passa solo nello stomaco ma che si annoda al tessuto sociale. Proprio il ristorante svolge una funzione di crescita della società civile se nasce con lo scopo di unire particolari gruppi o superare ostacoli di integrazione.
Come a Scampia, periferia nord di Napoli, dove, grazie a “chi rom e…chi no”, un’associazione di promozione sociale del territorio, è nato Chikù, ristorante gestito da donne italiane e rom che promuove l’integrazione culturale e la riconciliazione tra popoli, condividendo la passione per la gastronomia.
InGalera è invece il nome del ristorante nato nel carcere di Bollate, a Milano, aperto dalla Società Cooperativa ABC La Sapienza a Tavola. Sbarre alle finestre e un menu speciale che vive grazie “agli ospiti del carcere di Bollate, detenuti seguiti da uno chef e un maître professionisti che si riappropriano o apprendono la cultura del lavoro, un percorso di formazione che li mette in rapporto con la società civile”. In questi contesti il cibo è utilizzato come lingua universale.
Anche il World Food Program, programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite che si occupa di assistenza alimentare per ridurre la fame ha scelto di utilizzarla per diffondere un messaggio di sensibilizzazione. “Wherever you are in the world, food is a symbol of dignity and freedom” si legge nella presentazione del progetto Family Chief – A Taste of Home. Si possono scoprire le tradizioni gastronomiche dei Paesi nei quali il programma opera, scaricare ricette e leggere le storie di chi le ha preparate, avvicinando contesti apparentemente lontani ma uniti da un rito quotidiano che si svolge ogni giorno in tutto il mondo: cucinare e condividere il cibo con gli altri.