“La mia vita in cucina inizia all’età di 15 anni. Mio zio, Franco la Mura, cuoco di mestiere e maestro nell’arte dell’intaglio dei vegetali, mi trasmise la passione. Da lui imparai molto, soprattutto un concetto fondamentale: il lavoro del cuoco è fatto di sacrificio e passione.”
Nasce sul Golfo di Napoli e respira mare e salsedine. Cresce a Gragnano e si nutre del profumo del vento che corre veloce tra i vicoli come gli scugnizzi con i calzoni corti; lo stesso vento che, lentamente, asciuga la pasta stesa al sole. Impara il sapore a casa, dalla mamma e dalla zia, la quale, appassionata di Roma, insaporisce e stuzzica il suo palato con “i ricciolini all’amatriciana” scardinando inconsapevolmente in lui quello stretto legame fatto di territorio e tradizioni; iniziandolo così all’unico vero principio egemone in cucina: quello del gusto. Più tardi lo zio gli insegnerà l’amore e l’abnegazione per quel faticoso mestiere tra i fornelli.
“Mio Zio aveva un metodo di lavoro ben preciso – ricorda Domenico Stile con gli occhi luminosi e scuri mentre mi racconta la sua storia – e mi disse una cosa che non ho più dimenticato: se lo devi fare, fallo bene”.
Il dado è presto tratto. Domenico ha 14 anni. E mentre i suoi amici giocano a pallone lui lavora come cameriere. Un anno dopo entra in cucina, come apprendista, legandosi via via a quel mondo sempre con più coscienza. Talentuoso e tenace, costruisce la sua formazione con i Grandi della Ristorazione, per poi essere libero di disegnare le forme della sua cucina di costa campana immaginata per dare lustro alla sua terra.
“È stato Enrico Cosentino, inventore del classico scialatiello e mio docente alle scuole superiori, ad inserirmi nell’alta ristorazione”. Entra quindi nelle squadre di cucina di Gianfranco Vissani, Antonino Cannavacciuolo, Enrico Crippa. Poi va da Massimo Bottura, a respirare i sapori dell’inverno modenese in chiave contemporanea. Seguono le stagioni estive, in qualità di sous chef con Nino Di Costanzo ad Ischia; arriva fino a Chicago da Grant Achatz e poi torna a Roma, dove si ferma, per dare sapore ai prestigiosi ambienti di Villa Laetitia, dimora storica di Anna Fendi Venturini, progettata nel 1911 dall’architetto romano Armando Brasini e curata da Giulio Cesare Delettrez Fendi.
Qui l’eleganza degli elementi rinascimentali mescolati a quelli barocchi, fa da spettacolare cornice alla sua cucina, definita da lui stesso mediterranea, concreta, artistica, caratterizzata da componenti cromatiche intense e vivaci.
“Mi piace molto il lato estetico, il colore ci deve sempre stare, ma un piatto parte in primis dal gusto”. Domenico Stile, d’impronta tradizionale ma animato dal desiderio di sperimentazione – “perché chi punta all’eccellenza deve avere la mente aperta” – propone in carta piatti come Riso di semola all’amatriciana con seppia alla diavola e aceto balsamico, che da una parte rappresenta il suo tributo a Roma, dall’altro traduce ed inquadra le sue cifre stilistiche come gioco tra ingredienti e memoria.
“Il riso di semola è piatto che potremmo dire riassuntivo della mia filosofia di cucina, un sunto di tutto quello che ho appreso e delle esperienze che ho fatto; in ogni piatto c’è sempre qualcosa o qualcuno”.
Oltre alla memoria, quali sono gli ingredienti che nella tua cucina non possono mai mancare? “Il limone, il pomodoro e i formaggi bufala, soprattutto quelli stagionati, più grassi ma più delicati”.
Qual è la tecnica che usi di più? “Le marinature, sia di carne che di pesce”.
Dove sta andando la cucina italiana? “Secondo me la Cucina Italiana è ricca di identità, ma non ne ha una propria ed è sempre alla ricerca delle nuove mode, come la fermentazione o, anni fa, le spume. Sarebbero gli altri a dover imitare noi, non noi che dobbiamo andare a distruggere un ingrediente emulando altre cucine. In Italia, così come cambia il vento, tutti gli vanno dietro. Io preferisco fare le cose che piacciono a me”.
Che rapporto hai con la tua brigata? “Buono. Li ascolto, se hanno cose intelligenti da dire” (ride).
Lavori in un posto bellissimo, ma se dovessi aprire un tuo ristorante, dove lo apriresti? “A Gragnano sicuramente, a Casa Mia”.
Oltre al sapore e alle radici, cosa porti con te di Napoli? “C’è un detto napoletano, non so se lo conosci, dice così: O napulitan s fa sicc, ma nu mor, ovvero “un napoletano può arrivare agli stenti, ma non muore”. E secondo me questa è una delle cose più belle di Napoli, che racchiude una filosofia di vita che ci invidiano un po’ tutti: l’arte dell’arrangiarsi”; che è tenacia e genialità assieme, che rende ricchi anche i poveri, che è quella forza resiliente di non perdersi mai d’animo e di trovare sempre una nuova soluzione a nuovi problemi, molto spesso vivace quanto ingegnosa.